Influencer economy

Sempre più aziende nell’ultimo periodo si sono trovate a dover lavorare ad una strategia di marketing non convenzionale, ma sempre più popolare: lavorare con influencer per promuovere o recensire il proprio marchio (o brand) sui social network o sui new media.

Se negli anni 80 del secolo scorso la linfa vitale delle aziende erano i programmatori e l’industria pubblicitaria guardava con curiosità al mercato dei videogame oggi al centro delle strategie di vendita o di brand value delle aziende ci sono gli influencer.

Secondo l’ultimo report dell’Osservatorio Influencer Marketing il 62% degli utenti dei social network tra i 16 e i 64 anni dichiara di aver ha comprato almeno una volta un prodotto o un servizio consigliato da un influencer e circa 9 aziende su 10 (l’87% del totale delle aziende intervistate) dichiarano di aver coinvolto almeno un influencer nel proprio piano di comunicazione, su Instagram in primis seguito da Facebook e da Youtube.

Un sondaggio di Mediakix, un’agenzia di influencer marketing con sede a Santa Monica, in California, ha rilevato che il 17% delle aziende ha speso oltre la metà del proprio budget di marketing in influencer nel 2019.

«Quando si parla di influencer i più tendono a pensare che basti “ingaggiare” un testimonial conosciuto ed il gioco è fatto. È fondamentale, invece, sviluppare fin dall’inizio un piano strategico dell’attività che coinvolga l’influencer in diverse fasi, saper leggere i dati dei canali social e l’attivazione di un gruppo di lavoro (in house per le aziende più strutturate o affidandosi a società del settore) per una perfetta gestione dell’influencer» spiega Mario Neri, art director dell’agenzia pubblicitaria Studio Latte+ partner di SCnet Compliance&Corporate.

Quando si parla di influencer non si deve pensare subito ai mega-influencer, personaggi come Chiara Ferragni, Fedez o Gianluca Vacchi, ma i cosiddetti micro-influencer, quelli sotto i 100.000 followers, che costituiscono la spina dorsale del settore. Gli influencer, infatti, devono essere figure di riferimento all’interno di quella che per un’azienda è una nicchia -più o meno grande- di mercato.

Il compito di chi si occupa di marketing strategico è quello di studiare e analizzare queste nicchie, valutare il traffico degli influencer per capire se la relazione con il marchio può funzionare oppure no. Le aziende impiegano anni per creare fiducia, una scelta sbagliata potrebbe avere ricadute importanti in fatto di reputation e generare un impatto commerciale negativo a lungo termine. Recuperare è complesso ecco perché le aziende devono effettuare scelte ponderate e non affidarsi a un influencer solo per il “valore del nome”.

Già nel 2016 l’ex cabarettista diventato poi imprenditore tecnologico Ryan Williams parlava di “influencer economy” mettendo in relazione le aziende e le storie di chi è seguito sui social network.

È evidente che trovare l’influencer più adatto per una campagna è solo una parte (minima) del lavoro e che servono competenze e strategie ben chiare per orientarsi in questa nascente economia.

Il lockdown e le successive misure restrittive adottate anche in Italia negli scorsi mesi hanno dato un importante impulso alle campagne digitali. C’è un’alta probabilità che ci si affiderà sempre meno a campagne pubblicitarie televisive o tramite affissioni con il coinvolgimento di celebrity (costose). La vera sfida è aggiornare le strategie aziendali in fatto di marketing per sfruttare le potenzialità dell’influencer economy a vantaggio della propria azienda o del proprio brand.

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