Gli owned media sono il futuro

Sempre più aziende stanno investendo nel raccontarsi, molte lo fanno attraverso i social media ma il futuro va nella direzione di uno storytelling che si sviluppa su piattaforme proprie, i cosiddetti owned media: siti internet, blog, riviste (spesso online), app, newsletter, gestiti da team interni composti da professionalità ibride con esperti di marketing, comunicazione e giornalismo.

Già nel 2014 Tomas Keller, caporedattore e responsabile globale della programmazione digitale di GE Reports, la rivista online della General Electric Company la multinazionale statunitense, fondata nel 1892, attiva nel campo della tecnologia e dei servizi intervistato dal Financial Times diceva: «Alla gente di questi tempi non interessa molto da dove viene la storia, purché dica loro qualcosa».

Per Keller una bella storia può intercettare un numero interessante di lettori anche se pubblicata su un giornale aziendale e non necessariamente su una testata giornalistica, magazine o blog tra i più famosi ed influenti.

Secondo un’indagine condotta da McKinsey, multinazionale della consulenza, le aziende che puntano sui propri contenuti, veicolati le proprie piattaforme oltre a registrare una migliore brand reputation producono anche un risparmio di spesa – alla voce marketing e comunicazione – quantificabile tra il 10 e il 30%.

Se, in termini di affidabilità, i media a pagamento registrano un calo (attenzione agli investimenti in “sponsorizzate” sui social media) gli owned media rappresentano ormai un pilastro nelle moderne strategie di comunicazione. Le aziende hanno capito che attraverso i propri canali – cioè di proprietà – possono controllare meglio il proprio storytelling e gestirne la diffusione che è diventata sempre più personalizzata e costruita su target precisi.

I brand che agiscono come editori, tuttavia, non sono una novità. Già nel 1909 la Hershey Company (oggi Hershey Foods Corporation), una delle colonne portati della produzione del cioccolato negli USA, lanciò l’Harshey Press il suo magazine aziendale che conteneva pubblicità dei propri prodotti, articoli sulla sua fabbrica, ma anche editoriali dedicati alla politica capaci di interessare un pubblico più vasto rispetto alla propria clientela abituale.

Guardando all’Italia un esempio che vale la pena citare è la “Civiltà delle Macchine” realizzato da Finmeccanica dagli anni 50 ai 70, con contributi di intellettuali come Moravia, Ungaretti, De Libero, Miriam Mafai e altri con l’obiettivo d’instaurare un dialogo tra la scienza e le varie espressioni delle discipline umanistiche.

Raccontarsi in prima persona rappresenta, per qualsiasi azienda, un vantaggio e farlo su piattaforme che somigliano sempre più a veri e propri magazine rende la narrazione più efficace ed efficiente, depurata da fraintendimenti e diluzioni del messaggio che da forza all’identità del brand. Attenzione però: raccontare non significa vendere, un magazine aziendale non è un volantino delle offerte.

Richard Edelman, CEO della più grande agenzia di pubbliche relazioni al mondo, fa notare che le redazioni aziendali ci sono sempre state solo che se prima producevano contenuti da diffondere e comunicati stampa passando le giornate a telefono per farsi pubblicare mentre oggi si è passati all’autopubblicazione di contenuti sempre più multimediali. La grande differenza sta nel fatto che le aziende si sono rese conto di poter essere loro stesse delle media company.

Come dev’essere quindi un magazine aziendale? Secondo Katrina Craigwell, esperta di marketing digitale, attualmente a capo del digital marketing di Facebook, l’aspetto fondamentale sono i contenuti che devono essere di qualità, buoni quanto quelli degli altri media, se non migliori, e più accattivanti.

Non devono essere autoreferenziali ma fornire uno sguardo più ampio, globale, raccontare ciò che si è, ma saper anche raccontare il mondo fuori dal perimetro aziendale.

Gli esempi vincenti non mancano. Sicuramente su scala globale il miglior magazine aziendale è GE Reports con buona pace di The Red Bulletin della Red Bull e Nowness del colosso del lusso LVMH (in forte crescita) ma all’appello ci sono anche i magazine di aziende italiane come Pirelli World (Pirelli), Changes (Unipol) o Floornature (GrantiFiandre) realizzato a pochi chilometri da dove scriviamo.

error: Content is protected !!